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La licenza d'uso è un contratto che riguarda la "distribuzione pacchettizzata" del software (cioè dei diritti spettanti sul software) dove un autore sviluppa un prodotto destinato al consumatore in generale e non rispondente alle esigenze di un richiedente specifico. Questa tipologia di contratti è caratterizzata dal principio di libertà della forma e, in assenza di regolamentazione, si è sviluppata nelle più svariate configurazioni, adottando molte delle sue caratteristiche del sistema statunitense. I problemi giuridici maggiori si sono sviluppati negli anni precedenti l'entrata in vigore del d.lgs. 518/1992 che ha modificato la legge sul diritto d'autore (LDA) perché allora il dibattito riguardava la possibilità di fornire una tutela ai programmi per elaboratore (ovvero un qualche diritto agli autori di programmi per elaboratore). Successivamente a tale novella, che ha riconosciuto un certo tipo di tutela a tali prodotti, i problemi hanno riguardato, e continuano a riguardare esclusivamente la loro natura giuridica: le licenze d'uso del software, non corrispondendo ad alcun tipo legale e presentandosi nelle più svariate forme, hanno bisogno del lavoro della dottrina o della giurisprudenza cui spetterà stabilirne la natura e la disciplina applicabile caso per caso, vuoi che si propenda per assimilarli ad un contratto di vendita vuoi invece che si considerino alla stregua di contratti di locazione.

Caratteristche generali del contratto di licenza d'uso

Una caratteristica comune a tutte le licenze d'uso è che sono solitamente sbilanciate a favore del soggetto forte del rapporto (produttore, software house) e quindi contengono spesso clausole a suo favore piuttosto che a favore dell'acquirente. Il primo scopo della licenza è solitamente evitare gli effetti del principio dell'esaurimento, di cui all'articolo 64.bis, lett. c) della LDA, in base a tale principio la prima vendita di una copia del programma all'interno della Comunità Europea, da parte del titolare dei diritti, o con il suo consenso, esaurisce il diritto di distribuzione di detta copia all'interno della Comunità. Infatti, nelle licenze d'uso è sempre presente il potere dell'autore di continuare a disporre di quei diritti già ceduti, anche, e senza limiti, a favore di altri licenziatari. Allo stesso modo, nella maggior parte dei casi, il diritto ceduto tramite le licenze d'uso è quello di riproduzione ex art. 64.bis (LDA) che comprende tutte le possibili utilizzazioni fino alla riproduzione temporanea, al solo caricamento del programma o alla sua esecuzione. Inoltre, buona parte dei diritti che la legge riconosce all'utilizzatore sono derogabili e il soggetto più forte la fa spesso da padrone. La prassi offre molte tipologie di clausole di tal genere, come ad esempio quelle che vietano ogni diritto di modifica del programma, o limitano il numero delle riproduzioni consentite o il numero massimo di utenti che ne possono fruire contemporaneamente. Tra le clausole inderogabili invece c'è il diritto del licenziatario di effettuare una copia di riserva del programma (la copia di back-up) e la c.d decompilazione (il licenziatario può decompilare il codice oggetto e ricavarne il codice sorgente) se necessaria al fine di consentirne l'interoperabilità.

Tecnicamente, nelle licenze d'uso, le parti coinvolte sono il licenziante e il licenziatario; il primo (autore o software house) è colui che detiene i diritti esclusivi e che cede in godimento il software realizzato all'utilizzatore (licenziatario) che gode quindi di diritti di utilizzazione, più o meno ampi, i cui limiti sono imposti dalla legge o dall'autore del programma. La maggioranza delle licenze d'uso su software ricalcano lo schema dei contratti in serie o per adesioni previsti dall'art. 1341 c.c. e si tratta pertanto di fattispecie negoziali per le quali non è rinvenibile una fase di trattative: il contratto è unilateralmente predisposto dal licenziante e l'acquirente si limita ad aderirvi. Per ovviare a questo problema, il legislatore ha pensato di tutelare la parte più debole del rapporto, imponendo al licenziante di formulare le clausole contrattuali in maniera chiara e precisa al fine di renderle materialmente conoscibili dal licenziatario, ma questa norma non appare comunque sufficiente a fornire più libertà contrattuale al licenziatario.

Tipologie di licenze d'uso

Si può cercare di classificare le licenze d'uso prendendo a riferimento due esempi estremi, in cui la libertà contrattuale appare piena o molto limitata, ovvero la distribuzione di software di pubblico dominio e quella di software proprietario. Nel caso della distribuzione su licenza proprietaria, (c.d. copyrigth), si tratta generalmente di trasferimento a prestazioni corrispettive e quindi a titolo oneroso immediato, dove l'utilizzatore acquista una serie di diritti che trovano la loro limitazione nella riserva di diritti esclusivi di sfruttamento economico dell'autore. In alcuni casi però si assiste a schemi negoziali atipici, dettati da ragioni di mercato come la pubblicità, la sperimentazione del prodotto, la sua valorizzazione sul mercato. Si pensi per esempio, alle demo o trial version, cioè versioni di prova caratterizzate da un diritto all'utilizzazione limitato nel tempo o con utilizzo di software con funzionalità ridotte, che trovano la loro ragione d'essre nella mancanza di una obbligazione pecuniaria. Altro esempio specifico è quello delle licenze AD-ware con le quali il software è distribuito con banner commerciali che appaiono durante il suo utilizzo: in questi casi per esempio, l'utilizzatore è contemporaneamente parte del contratto di licenza e di un contratto pubblicitario.

Sul lato opposto, si collocano le licenze di pubblico dominio che hanno ad oggetto la distribuzione di programmi a titolo gratuito e senza alcun riferimento alla paternità dell'opera: in questo caso il software oggetto di trasferimento è assimilabile alla cosa mobile suscettibile di occupazione ex art. 923 c.c.

A metà tra questi due tipologie si collocano le licenze open source (o copyleft) con le quali il software è rilasciato insieme al codice sorgente; non si tratta però di licenze free perché quel software può comunque essere oggetto di specifici accordi di licenza che variano in relazione a quanto con quel codice è consentito fare. Anche la distribuzione del software open source differisce a seconda delle esigenze del licenziante che può alienarlo a titolo gratuito, ovvero sotto pagamento, o ancora può prevedere costi per servizi collegati o prodotti di valore aggiunto al software stesso.

Al di là di queste dissertazioni sulla natura giuridica delle licenze d'uso è utile soffermarsi sulle varie modalità di conclusione del contratto, in quanto, in questo settore, la pratica negoziale presenta delle caratteristiche singolari. Si fa riferimento innanzitutto alle c.d licenze a strappo (shrink-wrap licence o top box licence o tear-open licence) caratterizzate dal fatto che l'apertura della confezione (lo strappo) è il comportamento concludente di accettazione della proposta contrattuale di licenza: è solo dopo aver strappato l'involucro del programma che l'acquirente viene a conoscenza delle condizioni contrattuali., essendo prima in una condizione di deficit conoscitivo. Altra ipotesi diffusa è la c.d modalità point&click, tipica dell'e-commerce e dei contratti conclusi via web, che si attua attraverso la semplice pressione del tasto negoziale (con la scritta "accetto" oppure "acquisto").

Secondo la disciplina generale dei contratti, sia lo "strappo" che l'utilizzo del tasto negoziale nel point&click, sono ammissibili come comportamenti concludenti e quindi ammessi come forma di accettazione. Il contratto così concluso trova fondamento nel principio di libertà contrattuale non potendo il comportamento concludente soddisfare i requisiti della forma scritta ad substantiam: per il trasferimento dei diritti di utilizzazione del software è richiesta solo la forma scritta ad probationem. Restano ovviamente dubbi circa la validità delle clausole non conosciute, né conoscibili dall'acquirente. In questo caso essendo la licenza d'uso un contratto rientrante nella tipologia descritta dall'art. 1341 c.c. ovvero nei contratti per adesione, l'accettazione "a strappo" e il point&click, debbono adeguarsi alle regole dettate in presenza di clausole vessatorie, che per essere efficaci devono essere approvate separatamente per iscritto.

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Internet consente oggi giorno di fare una grande quantità di cose, dall'invio di semplici messaggi, immagini, o filmati alla comunicazione all'interno di newsgroups, mailing lists, chat line, social network, fino alla costruzione di pagine Web personali. Questo comporta il rischio che possano verificarsi violazioni e illeciti da parte degli tenti utilizzatori della rete, tra i quali si ricorda:

Illeciti commessi tramite la rete internet

  • la violazione delle norme sul diritto d'autore, che si realizza quando documenti, immagini ed altre opere protette vengono riprodotte e pubblicate sulla rete senza la necessaria autorizzazione da parte dell'autore o del titolare dei diritti su di esse;
  • la diffamazione, avvenuta mediante l'invio di materiale offensivo o la pubblicazione di materiale offensivo su siti internet o social network;
  • la violazione delle norme sul buon costume e contro lo sfruttamento sessuale dei minori, con la pubblicazione di materiale pornografico;
  • la violazione delle norme sull'ordine pubblico, con la pubblicazione, ad esempio, di materiale di stampo terroristico;
  • la violazione del diritto alla riservatezza, che si ha quando dati riservati o segreti relativi ad un individuo o ad un'organizzazione vengono resi pubblici su un sito internet;
  • la concorrenza sleale, nel caso di informazioni false o diffamatorie messe in rete tra imprese concorrenti;
  • la violazione delle norme sulla protezione dei marchi.

La natura stessa di Internet e la grande facilità di diffusione di messaggi, immagini, filmati ed ogni altro tipo di comunicazioni, rendono estremamente difficile individuare i soggetti responsabili di eventuali illeciti commessi. Il discorso che si è aperto sulla responsabilità dell'internet service provider (ISP) sulle violazioni commesse da un qualsiasi utente sul suo server, risponde alla necessità di individuare in concreto un soggetto responsabile della violazione. Le tecnologie utilizzate per gestire una rete telematica non sempre consentono di identificare realmente l'utente che compie una violazione. Infatti solitamente un utente accede alla rete mediante una procedura di login, con un nome di accesso, o username , ed una password. Tecnicamente è sempre possibile identificare il nome d'accesso dell'utente che ha commesso la violazione attraverso quello che viene chiamato il log file, contenente l'identificazione dell'utente che ha effettuato il login e i tempi di accesso di ogni utente, tuttavia nulla vieta che tale nome possa essere stato in precedenza sottratto, insieme alla sua password , ed utilizzato fraudolentemente da terzi al fine di evitare ogni possibile conseguenza. La stessa difficoltà di individuazione si ha quando uno stesso nome di accesso alla rete è utilizzato da più persone contemporaneamente.

Responsabilità degli Internet Service Providers

La globalizzazione della rete non fa che peggiorare le cose, in quanto se anche l'utente che ha commesso la violazione venisse identificato, questi potrebbe trovarsi in un paese in cui la normativa applicabile a quella fattispecie sia diversa da quella applicabile nel luogo dove il danno si è verificato, con il possibile rischio di non riuscire a punire l'utente direttamente responsabile dell'illecito. Ecco perché di fronte a tali rischi, si discute se attribuire una responsabilità al ISP, soggetto sempre identificabile e assoggettabile alle norme del paese in cui la violazione è commessa.

Il riferimento normativo per una qualificazione giuridica del regime di responsabilità dei vari providers è oggi dato dal Decreto legislativo 9 aprile 2003 n. 70. Detto decreto è stato emanato in attuazione della direttiva 2000/31/CE, "relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico" (direttiva nota come "direttiva sull' e-commerce), e affronta la complicata questione sulla responsabilità degli ISP negli articoli da 14 a 17.

Innanzitutto, il legislatore effettua una tipizzazione delle attività del prestatore di servizi, prevedendo per esse responsabilità differenziate:

  • l'attività di semplice trasporto, o "mere conduit" (art. 14) per la quale si prevede che nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione, il prestatore non è responsabile delle informazioni trasmesse a condizione che non dia origine alla trasmissione, non selezioni il destinatario della trasmissione oppure non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse.
  • l'attività di "caching"(art.15), ossia la memorizzazione temporanea di informazioni e documenti effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari. Il caching ha solitamente la funzione di ridurre l'uso della banda e quindi il tempo di accesso ad un Sito web. L'articolo citato prevede l'esenzione da responsabilità per il provider che, nella prestazione di un servizio, abbia effettuato "la memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni". L'esenzione da responsabilità, però, non opera qualora il provider modifichi le informazioni (lett. a), non si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni (lett. b) o alle norme di aggiornamento delle informazioni, indicate in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle imprese del settore (lett. c), interferisca con l'uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull'impiego delle informazioni (lett. d), non agisca prontamente per rimuovere le informazioni non appena venga a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l'accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un'autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione (lett. e).
  • l'attività di "hosting" (art. 16), che è la tipica attività del ISP, che può andare dalla mera gestione del sito sul server, con memorizzazione delle pagine web, alla tenuta degli archivi informatici del cliente, con conservazione dei files di log. Ai sensi della norma citata, il prestatore (c.d."host provider") non è responsabile delle informazioni memorizzate a condizione che:
  • non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o circostanze che rendano manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione;
  • non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso.

Opportunamente, il secondo comma esclude l'esenzione di responsabilità del provider , con conseguente sua piena responsabilità , se il destinatario del servizio agisce sotto l'autorità o il controllo del prestatore (è il caso, ad esempio, del content provider): in questa ipotesi, infatti, il provider non risulta estraneo alle informazioni veicolate, e quindi risponde, per fatto proprio, per gli eventuali contenuti illeciti immessi in Rete.

Va considerato, ancora, che un disposto, riprodotto in maniera sostanzialmente identica tanto per i casi di "mere conduit", che di "caching", che di "hosting", prevede la possibilità che il prestatore di servizi, anche ove non responsabile, sia tenuto, dietro provvedimento dell'autorità giudiziaria o amministrativa competente, ad impedire o a porre fine ad un illecito.

Particolarmente significativo è, infine, l'art. 17 del D.Lgs. 70/03 che sancisce l'assenza dell'obbligo generale di sorveglianza. E' infatti affermato, che il prestatore dei servizi non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza né ad un obbligo di ricercare circostanze che indichino il compimento di atti illeciti. Tale disposizione deriva dal riconoscimento della impossibilità (tecnica anzitutto, data la mole e la volatilità dei contenuti presenti on line) per il provider di operare un controllo, preventivo o successivo, sulle informazioni memorizzate o trasmesse. Il principio spiega i suoi effetti anche da un punto di vista penalistico: dal momento che manca un generale obbligo di sorveglianza in capo al prestatore/provider sui dati immessi da terzi in rete, non potrà trovare applicazione la clausola di equivalenza prevista dal secondo comma dell'art. 40 c.p., secondo la quale "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo".

A completamento della disciplina è imposto al ISP di informare prontamente l'autorità giudiziaria o quella amministrativa, qualora sia a conoscenza di presunte attività illecite riguardanti un proprio cliente, ovvero di fornire, a richiesta delle autorità competenti, informazioni in suo possesso, al fine di permettere l'identificazione di un destinatario del servizio implicato in attività illecite. L'ISP è invece responsabile se a fronte di richiesta dell'autorità giudiziaria o amministrativa, abbia ritardato la rimozione del materiale lesivo ovvero, a conoscenza del carattere illecito del contenuto di un servizio da esso fornito, non abbia provveduto ad informarne l'autorità competente.

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Il tema dei pagamenti elettronici rappresenta oggi uno degli argomenti più caldi e vivaci nel panorama europeo e italiano. Si tratta di un mercato i cui contorni non sono ancora totalmente definiti, ma che coinvolge un numero di attori sempre più elevato ed è oggetto sia dell'Agenda Digitale Europea che dell'Agenda Digitale Italiana. Le principali motivazioni che giustificano il passaggio dai pagamenti in contanti all'adozione sempre maggiore dei pagamenti elettronici sono molti:

  • l'aumento della trasparenza e della tracciabilità dei pagamenti;
  • la riduzione dei costi di transazione e di gestione per gli operatori del sistema;
  • la riduzione dei prezzi per i consumatori finali;
  • la maggiore sicurezza complessiva;
  • la possibilità di integrazione con altri mercati.

L'obiettivo dei governi nazionali e di quello europeo è realizzare una reale integrazione e standardizzazione dei sistemi di pagamento. La presenza di standard comuni porterebbe, infatti, all'aumento della concorrenza anche a livello transnazionale, incrementando gli effetti di scala a tutto vantaggio degli operatori e degli utenti finali, che avrebbero maggiore possibilità di scelta, condizioni d'accesso più trasparenti e la garanzia di livelli di sicurezza maggiori. Quest'elemento appare fondamentale nel momento in cui si prendono in considerazione scenari innovativi, come quelli legati ai mobile payments.

Il nome di dominio (chiamato anche nome a dominio o domain name o host name) è l'indirizzo di un sito web. Per poter approfondire il problema della sua tutela e della disciplina giuridica applicabile, occorre prima soffermarci brevemente sulla sua natura.

Finalità e caratteristiche del nome di dominio

La trasmissione di dati fra computer collegati a Internet ha luogo grazie ad alcuni protocolli di comunicazione universalmente accettati (standard), i più importanti e conosciuti dei quali sono il protocollo TCP (Transmissione Control Protocol) e il protocollo IP (Internet Protocol). Questi sono due strumenti fondamentali per il funzionamento della rete internet, in quanto responsabili della trasmissione, dell'instradamento e della ricezione dei pacchetti di dati e quindi delle informazioni. Insieme a questi due protocolli, troviamo un altro importantissimo elemento che è il Domain Name System (DNS). Attraverso l'IP ciascun computer collegato alla rete è individuato da una stringa numerica che ne rappresenta appunto l'indirizzo IP e che consente di accedervi attraverso la rete. Questa stringa di numeri risulta essere di difficile memorizzazione per l'uomo ed è per questo motivo che viene utilizzato un sistema dei nomi di dominio (DNS) che traduce ciascun indirizzo IP in una sequenza di caratteri alfanumerici (che rappresentano il nome di dominio) più facilmente memorizzabili per l'utente perché di solito si riferiscono al nome del titolare del sito o alla sua attività. Il DNS non è altro che uno strumento che traduce e gestisce gli indirizzo IP per facilitare l'utente nella navigazione, permette cioè di risalire, in maniera trasparente per l'utente, da un nome di dominio ad un indirizzo IP e viceversa.

Per quanto riguarda la sua struttura, ogni nome di dominio, cioè ogni indirizzo alfabetico, si compone di due parti: la parte situata all'estrema destra il cd. TLD (Top level domain), che è composto da due o tre lettere e identifica l'attività svolta dal sito (com, org, edu, ecc.) oppure la sua appartenenza geografica ( it., uk., fr, ecc. ), e la parte situata all'immediata sinistra del top level domain, il cd. SLD (second level domain), che può essere scelto liberamente dall'utente utilizzando qualsiasi lettera o sigla purché non superi il limite di 24 caratteri complessivi.

Il nome di dominio, così come l'indirizzo IP può essere assegnato ad un solo soggetto perché si riferisce univocamente alla risorsa alla quale è associato. L'assegnazione avviene secondo un criterio di priorità temporale (criterio c.d. del "first come, first served") ed è gestita da apposite organizzazioni o enti (Registration Authorities) preposte a questo scopo dall'ente centrale di controllo del DNS che è costituito negli Stati Uniti ed è chiamato Internet Corporation for Assigned Names and Numbers - ICANN.

Assicurarsi un buon nome di dominio, facile da memorizzare, è molto importante soprattutto in considerazione dell'importanza economica che la Rete ha raggiunto ultimamente: si è assistito, infatti, ad un crescente interesse per certi nomi di dominio, soprattutto riguardo a quelli con nomi suggestivi, parole di uso comune o corrispondenti a marchi o a personaggi famosi. Questo ha portato ad un fenomeno di accaparramento dei nomi di dominio (c.d. cybersquatting ovvero registrazioni effettuate in serie di un elevato numero di denominazioni), e a contenziosi sempre più frequenti nei tribunali, anche perché spesso il nome di dominio veniva registrato per poi rivenderlo a prezzi più elevati (domain grabbing, una sorta di ricatto per le aziende, che per avere un'efficace presenza su Internet si vedono costrette a dover acquistare il nome di dominio corrispondente al proprio marchio a prezzi anche assai elevati).

Tutela del nome di dominio

In mancanza di una legislazione ad hoc, in una fase iniziale la natura giuridica del nome di dominio è stata ricondotta dai giudici ad un mero indirizzo o numero di telefono o più spesso ad un segno distintivo atipico dell'impresa accostandolo di volta in volta all'insegna, alla ditta o al marchio. A livello nazionale la questione è stata risolta definitivamente con l'emanazione del Codice della proprietà industriale (D.Lgs 30 del 2005) che ha riconosciuto al nome di dominio la sua natura di segno distintivo dell'impresa. All'art. 12 è previsto che non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni che, alla data del deposito della domanda, siano identici o simili ad un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome di dominio usato nell'attività economica, o altro segno distintivo adottato da altri, se a causa della identità o somiglianza fra i segni e del'identità o affinità fra l'attività d'impresa da questi esercitata ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. All'art. 22 è inoltre specificato che "è vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito usato nell'attività economica o altro segno distintivo un segno uguale o simile all'altrui marchio se, a causa dell'identità o dell'affinità tra l'attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni". Tale divieto si estende anche all'adozione come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome di dominio di un sito usato nell'attività economica o altro segno distintivo di un segno uguale o simile ad un marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, che goda nello Stato di rinomanza, se l'uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

Il codice in oggetto ha introdotto anche la possibilità, per il titolare del marchio, di esercitare azioni di rivendica nei confronti dell'assegnatario di un nome di dominio in quanto la registrazione di un nome di dominio aziendale concessa in violazione dell'art. 22 o richiesta in mala fede, può essere revocata, su domanda dell'avente diritto, oppure a lui trasferita da parte dell'Autorità di Registrazione (art. 118, comma 6). Inoltre l'art. 133 prevede una tutela cautelare dei nomi di dominio, disponendo che "l'Autorità giudiziaria può disporre, in via cautelare, oltre all'inibitoria dell'uso nell'attività economica del nome a dominio illegittimamente registrato, anche il suo trasferimento provvisorio, subordinandolo, se ritenuto opportuno, alla prestazione di idonea cauzione da parte del beneficiario del provvedimento".

La disciplina del Codice della Proprietà industriale sarà comunque applicabile qualora i soggetti coinvolti siano imprese. Nel caso si tratti di persone fisiche si dovrà ricorrere alla tutela del nome offerta in sede civilistica, cioè alle disposizioni contenute negli artt. 6-9 del Codice Civile e alla generale disciplina del fatto illecito ex art. 2043 c.c.

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